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Non li vediamo, non li sentiamo, non emanano cattivi odori eppure sappiamo che i campi elettromagnetici ci sono. Non è necessario scomodare Sherlock Holmes per accorgersi della loro presenza. Ne abbiamo le prove. Sono sufficienti, ad esempio, i telefoni cellulari che comunicano tra loro senza alcuna connessione via cavo. Ci basta pensare alle radio o ai telefoni cordless per intuire una presenza invisibile e, proprio per questo, più inquietante. Da sempre, infatti, l’essere umano è spaventato da ciò che non vede. Il buio, ancora oggi, nonostante ogni sforzo razionale, incrementa la nostra percezione del pericolo. Non per il buio in sé, ma per l’impossibilità di usare a pieno le capacità del nostro apparato visivo.
Sappiamo, dunque, che i campi elettromagnetici esistono. Ma come facciamo a distinguere i diversi campi, ad esempio, quelli potenzialmente dannosi e quelli innocui? Se non li vediamo, come facciamo a sapere quali sono le fonti di rischio? Partiamo da una semplice constatazione: viviamo in un mondo immerso in campi elettromagnetici, sia in ambienti domestici che lavorativi attraversati da reti di telefonia mobile, reti wireless, segnali radio e TV, segnali satellitari, elettrodotti, ecc. Ormai sembra raro trovare zone “elettrosmog free”. E allora come dobbiamo comportarci?
Accostando per la prima volta una problematica relativamente nuova, anche se di natura scientifica o tecnologica, possiamo cadere con facilità in due comuni errori: l’allarmismo o l’indifferenza. Il nostro intento, invece, dovrebbe essere quello di operare secondo due principi di ragionevolezza, assunti e promossi anche in sede europea: il principio di precauzione, in base al quale occorre prendere decisioni in modo da limitare e prevenire i pericoli potenziali di un fenomeno di cui non si ha ancora una piena conoscenza; ed il principio ALARA (As Low As Reasonably Achievable), in base al quale l’esposizione al fattore potenziale di rischio deve essere mantenuta al livello ragionevolmente più basso possibile.
L’uso corretto di entrambi questi principi non può prescindere da una conoscenza minima della materia controversa sotto il profilo scientifico. A riguardo, andrebbe subito chiarito che i campi elettromagnetici naturali non hanno nulla a che vedere con i campi elettromagnetici artificiali. In natura sono presenti campi elettromagnetici “statici” di origine naturale, legati per esempio alla presenza del campo magnetico terrestre o alla scarica dei fulmini. Questi sono ben diversi da quelli creati dall’uomo. Quando si superano i livelli di campo presenti in natura si parla di elettrosmog. In particolare, le fonti elettromagnetiche artificiali umane contribuiscono all’innalzamento del cosiddetto “fondo naturale”.
Alla luce dei recenti studi e dei necessari approfondimenti sugli effetti a lungo termine, è opportuno non sottovalutare la correlazione tra salute dei lavoratori e dei cittadini ed esposizione alle onde elettromagnetiche. Negli ultimi mesi anche diversi programmi televisivi di approfondimento hanno dimostrato interesse per la tematica. Per quale motivo? Perché soltanto ora che abbiamo superato la soglia di 5 miliardi di SIM attive nel mondo?
Il motivo più probabile è da ricercare nella pubblicazione di diversi pareri internazionali emanati nel corso del 2011. In particolare, nel maggio 2011 lo IARC, Ente Internazionale per la ricerca sul Cancro che fa capo all’Organizzazione Mondiale della Sanità, ha classificato i campi elettromagnetici a radio frequenza (microonde, wifi, cellulari, cordless, ecc.) come potenzialmente cancerogeni, introducendoli nella classe 2B (IARC, 2011). Ma già nel 2002 aveva classificato come potenzialmente cancerogeni i campi magnetici a bassa frequenza (ELF), e quindi quelli prodotti da elettrodotti, cabine elettriche, ecc. Nello stesso periodo in cui lo IARC comunicava la classificazione suddetta, inoltre, l’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa, nella Risoluzione 1815 indicava chiaramente la necessità di evitare l’esposizione ai campi elettromagnetici a radiofrequenza, soprattutto per i giovanissimi.
C’è poi lo studio del Nascentis Medicina Reproductiva di Cordoba che ha sottolineato il rischio legato all’uso dei computer portatili connessi a internet tramite Wi-Fi. In particolare, è stata indicata una chiara diminuzione della motilità degli spermatozoi ed un aumento della frammentazione del DNA spermatico (Avendaño et al., 2011). Un elemento che deve far riflettere sugli effetti indesiderati legati alle nuove tecnologie e sulla diffusione delle informazioni più delicate.
Per quanto riguarda l’Italia, un primo dato estremamente rilevante è rappresentato dalla sentenza n. 614 del 10 dicembre 2009, in cui la Corte di Appello di Brescia, Sezione Lavoro, ha riconosciuto la correlazione causa-effetto di un “neurinoma del ganglio di Gasser” insorto nel 2002 in un soggetto maschio utilizzatore di telefoni mobili per motivi professionali. Si tratta della prima sentenza di condanna che afferma una stretta correlazione tra uso del cellulare e tumori. Da parte sua, il Consiglio superiore di sanità ha affrontato la questione dei rischi potenziali di uno smodato uso di telefoni cellulari nella seduta del 15 novembre 2011. In linea con gli studi dell’Agenzia internazionale della ricerca sul cancro (IARC) e in accordo con l’Istituto superiore di sanità, il Consiglio superiore ha emesso un parere, in cui rileva che non sia stato finora dimostrato alcun rapporto di causalità tra l’esposizione a radio frequenze e le patologie tumorali. Tuttavia le conoscenze scientifiche attuali non consentono, ad oggi, di escludere l’esistenza di causalità quando si fa un uso molto intenso del telefono cellulare. Va quindi applicato secondo il parere, soprattutto per quanto riguarda i bambini, il principio di precauzione. Tale principio include anche l’educazione ad un utilizzo non indiscriminato, ma appropriato, quindi limitato alle situazioni di vera necessità, del telefono cellulare.
Sulla base di queste riflessioni, il Ministero della Salute avvierà una campagna di informazione sulla base delle ultime relazioni degli organismi tecnico-scientifici per sensibilizzare proprio a tale uso appropriato. Lo stesso Ministero, inoltre, ha annunciato che avvierà una campagna di informazione per sensibilizzare sull’uso appropriato dei telefoni cellulari, alla luce delle analisi dell’OMS e delle indicazioni del Consiglio superiore di sanità. L’obiettivo, fino a che non si avranno dati certi, è quello di limitare i potenziali effetti dannosi con un uso il più attento possibile.
Ma qual è il vero problema delle fonti di rischio elettromagnetico? Non dobbiamo valutare solo l’emissione del singolo dispositivo, ma un insieme di elementi che ci permetta di ridurre la nostra esposizione complessiva e involontaria a questi campi.
Quali comportamenti possiamo adottare da subito per ridurre l’esposizione personale ai campi elettromagnetici? Tra le indicazioni generali, utili sia in ambienti domestici che lavorativi, rientrano le seguenti pratiche: limitare l’uso dei telefoni cordless e possibilmente sostituirli con telefoni via cavo; non tenere il cellulare a diretto contatto con il corpo, meglio l’uso dell’auricolare a filo (niente bluetooth) o viva voce; non dormire con il cellulare nelle vicinanze del letto (quindi non va bene nemmeno il comodino); utilizzare scanner, stampanti e fotocopiatrici con coperchi sempre abbassati; non posizionare trasformatori (di pc, stampanti, cellulari, lampade, ecc…) collegati alla rete elettrica in prossimità della postazione di lavoro; mantenere una certa distanza di sicurezza dal forno elettrico o dal forno a microonde quando sono in funzione; non sostare per periodi lunghi in prossimità di metal-detector o sistemi antitaccheggio; non avvicinare troppo l’asciugacapelli alla testa ed in generale al corpo; non usare dispositivi portatili (netbook o notebook) in funzione sulle gambe, ma appoggiarli sempre su un supporto; chiedere al proprio datore di lavoro il rispetto legislativo del TU 81/2008 e la valutazione e misurazione di tutti i campi elettromagnetici, sia in alta che in bassa frequenza, di tutte le postazioni di lavoro, al fine di verificare i limiti di esposizione ed intraprendere eventuali azioni di minimizzazione del rischio.
Autore: Dott. Alessandro Valenza (www.polab.it)